Capita che certe sere sei un po’ stressata, mediamente scazzata e vagamente depressa, non sai nemmeno tu di cosa hai voglia e allora girellando per Netflix ti attacchi alla prima cosa che ti sembra vagamente interessante.
Ecco come sono finita a vedere la prima puntata di Sword Art Online, un anime che almeno dalla descrizione prometteva bene, sennonché poi è risultato una ciofeca.
La trama in breve: Siamo nel futuro, la realtà virtuale è all’ordine del giorno, centinaia di giocatori online sono intrappolati in un videogioco e solo Kirito, il protagonista, può salvarli.
M’ispira (m’ispira tutto quello che ha a che fare con la realtà virtuale), vediamolo.
L’anime inizia così: è il 2022, la tecnologia ha fatto passi da gigante e ha creato il Nerve Gear, una specie di casco che, se indossato, permette l’immersione in un mondo virtuale.
Nei primi minuti vediamo il protagonista che s’infila il casco, si stende sul letto e fa il login per entrare in Sword Art Online, il primo VRMMORPG (Virtual Reality Massively Multiplayer Online Role-Playing Game) della storia.
Vediamo la schermata d’accesso al gioco con il nome utente e la password che si compongono poco a poco.
Disse il rompicoglioni: ma se è steso sul letto ed ha solo il visore, come fa a digitare i dati per il login?
Nevermind, niente domande difficili.
All’interno del gioco, Kirito aiuta un altro giocatore ad acquisire le tecniche base di combattimento, sfruttando le conoscenze che ha acquisito in passato, quando ha fatto da beta tester del gioco. I due uccidono un cinghiale nei pressi di una città medievale e fanno un po’ di chiacchiere, dalle quali esce fuori che il protagonista si sente molto più vivo all’interno dei mondi virtuali che nel mondo vero.
Fin qui tutto bene, all’improvviso però i giocatori si accorgono che non c’è il tasto per fare il logout e uscire dal gioco. Un bug? Certochenò.
Con un’entrata alla volevamo essere Evangelion arriva il cattivo, che altri non è che Kayaba Akihiko, il creatore del gioco, che spiega perché non c’è il tasto del logout.
E’ molto semplice: siccome è il cattivo, ha imprigionato le coscienze dei giocatori nel mondo di Sword Art Online e l’unico modo per uscire vivi dal gioco è superare tutti i cento livelli: chi tenta di uscire in un altro modo, muore.
Risate a profusione, nessuno pensa che sia vero. Ma i sorrisi fanno presto a spegnersi, perché a questo punto succede una cosa terribile: anche se non lo vediamo, c’è evidentemente il pirla di turno che preme il fatidico bottone.
Ahimè, come tutti sanno, una volta premuto questo pulsante, non esiste Mela+Z che tenga: bisogna sorbirsi tutta la pappardella.
Il cattivo attacca a blaterare cose che erano già abbastanza intuibili, del tipo: non potete uscire di qui, non potete togliervi il visore, se qualcun altro prova a togliervelo morirete, se salta la luce e il visore vi si fulmina morirete (tanto in Giappone la luce salta solo quattro volte la settimana, che vuoi che sia), se vi molla la batteria interna del visore morirete, se le prendete da un nemico e i vostri punti scendono a zero morirete. In una parola: siete fottuti.
Il motivo per cui fa tutto questo? Un grande classico: perché sì, sono il cattivo e faccio cose cattive.
La prima puntata dell’anime finisce con l’incredibile decisione del protagonista di non morire e combattere per salvarsi.
Ora, lo scopo di questo post non è tanto parlare di SAO (di cui non credo proprio che vedrò la seconda puntata), ma di porre un interrogativo che mi è sorto durante la visione dell’anime.
L’interrogativo è questo: perché nelle realtà virtuali togliersi il device che ti consente l’immersione è sempre un’operazione delicata/complicata/rischiosa/impossibile?
Fatta eccezione per Player One, non mi vengono in mente altri casi (libri, film, fumetti, anime) in cui per scollegarsi dalla realtà virtuale sia sufficiente togliersi il visore senza che questo comporti subire danni di media/grave entità.
Il punto è che questo non ha senso. Chi mai indosserebbe un device tecnologico senza avere la certezza assoluta di poterselo togliere senza alcun rischio?
Ma soprattutto: è vero che si parla di fantascienza, ma c’è un motivo tecnico per cui sfilarsi un visore per disconnettersi dalla realtà virtuale dovrebbe essere un’operazione ad alto rischio di danni cerebrali (e mai di un più plausibile capogiro o senso di smarrimento)?
A me ‘sta cosa pare una forma di bigottismo tecnologico: ti connetti alla realtà virtuale, che è come dire che stai negando la realtà, e allora per punizione subirai danni al cervello.
Cioè, dai… no.
Ragazzi, sarà che deliro, ma a me questa cosa mica piace. Se qualcuno può aiutarmi a risolvere questo dubbio, gliene sarò per sempre grata.
Altrimenti me ne torno a fare le cose importanti di tutti i giorni, tipo lavorare e pensare al futuro.
Vostra,
Linda